L’immaginario voyeuristico dei reality show

Nonostante non detenga più quella posizione di monopolio di ascolti registrata in precedenza, ciò che rende la televisione di oggi ancora appetibile per una buona parte di pubblico sono i cosiddetti “reality show”, quel genere televisivo ampiamente radicato nell’universo mediatico, diventato ormai un modello di riferimento del mondo dello schermo. Se, come viene descritta da numerosi autori, la società neoliberista contemporanea, edonistica ed egocentrica, sembra essere pervasa da un’inarrestabile espansione dell’immaginario – quale dimensione della rappresentazione inconscia che riguarda il campo dell’identificazione speculare e dell’amore narcisistico per la propria immagine ideale – tale espansione sembra avere trovato un ottimo mezzo di propagazione nella potenza immaginaria e plastica del medium televisivo.

Un mezzo che, nonostante abbia perso o affievolito nella veste di media tradizionale la sua posizione egemonica nel panorama mediale, continua a convivere agevolmente con i nuovi media inglobandoli in parte all’interno dei propri contenuti e trovando ampi spazi di audience nei servizi interattivi di piattaforme per lo streaming video via Internet.

Ed è nei reality show che si è registrata una rinnovata capacità del medium televisivo di sollecitare l’immaginario dello spettatore, con tutta la forza attrattiva dei meccanismi identificativi e di rispecchiamento narcisistico che accompagnano quella tipologia di sfida competitiva e che sono all’origine della grande fortuna di pubblico ottenuta, soprattutto negli anni iniziali, da un buon numero di serie televisive diffuse in Europa, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso e, dai primi anni Duemila, disponibili nelle corrispondenti versioni italiane del Grande Fratello, L’isola dei famosi e Temptation Island. Ciò che rende seduttivi tali programmi è il sogno di cambiare, il desiderio di passare dall’anonimato alla celebrità; programmi le cui principali modalità di fare spettacolo consistono nella «sfilata», nella «nomination» e nell’«eliminazione del concorrente», divenuti meccanismi televisivi di grande successo.

Per Franco Lolli (20120, che ha dedicato a questo tema uno studio approfondito, il personaggio del reality enfatizza tratti della contemporaneità che rispondono alla logica di tipo perverso: per riuscire gradito al pubblico fa di sé l’icona della potenza fallica. Se nella sfilata il concorrente del reality, motivato dalla spinta esibizionistica, giunge a sottoporsi al giudizio implacabile dello spettatore e al suo godimento voyeuristico, nella nomination viene rappresentato l’atto spietato del gruppo che partecipa all’eliminazione dell’altro, trasformando un’attitudine ritenuta in passato amorale e deplorevole in uno stile di vita affascinante e vincente. Nell’oscillare tra finzione e realtà (come suggerisce il suo stesso nome) il reality si presenta come un gioco che ha lo scopo di legittimare il meccanismo cinico della nomination, giustificando il valore sociale dell’opportunismo utilitaristico indifferente al prossimo.

Nell’amplificazione parossistica del narcisismo il soggetto votato al culto di sé e della propria immagine offre se stesso allo sguardo ammirato dell’Altro, riproducendo ciò che Lacan (1957-1958), richiamandosi a Freud, definisce «funzione immaginaria del fallo» quale fulcro di un processo simbolico che porta i bambini piccoli di entrambi i sessi a identificarsi con il fallo immaginario oggetto del desiderio materno. Nell’affermare la priorità della dipendenza del bambino dall’amore della madre Lacan intende infatti sostenere che esso non vive la relazione con la propria madre fondandola sulla semplice soddisfazione del bisogno, ma cercando nella madre il segno del suo amore, del suo desidero: ovvero, di essere desiderato come unico e speciale. In tal senso l’identificazione con il fallo immaginario consente al bambino di sentirsi l’oggetto esclusivo che rende la madre completamente appagata (Lolli, 2012).

Un’aspirazione, quella del bambino, che dunque necessita di venire ostacolata dall’azione simbolica determinante del padre (che caratterizza la vicenda edipica). In tal senso la funzione paterna, quale funzione normativa che introduce il soggetto all’esperienza strutturante del limite, evita al bambino e alla bambina di rimanere prigionieri all’interno di una relazione immaginaria di attaccamento fusionale con la madre.

La forza immaginaria sollecitata dall’occhio televisivo, capace di condizionare, o addirittura travolgere, personalità fragili, è ben descritta nel lungometraggio Reality (2012) di Matteo Garrone. Completamente assorbito dalla propria immagine ideale, Luciano, l’eroe tragico protagonista del film, pescivendolo napoletano animatore dilettante di feste nuziali, si sente attratto da una realtà sganciata dalla quotidianità anonima e piatta: una realtà spettacolare regno dell’immaginario che, al pari del sistema televisivo, orienta vite e desideri. È la realtà del Grande Fratello, luogo sublime e voyeuristico all’interno del quale Luciano, alla fine del film, scartato dalla selezione preliminare penetra di nascosto senza farsi notare. Non essendo ripreso dalle telecamere il suo destino è però quello di risultare invisibile allo sguardo del pubblico e di trasformarsi in una non presenza, irrilevante e insignificante, quindi, escluso da ogni possibile sguardo.

Ciò che mette in scena il film di Garrone è sia lo sguardo esterno fantasmatico che sottende il desiderio del soggetto di essere riconosciuto dall’altro (il proprio simile), sia lo sguardo dell’Altro garante del desiderio, la cui forza di seduzione è stata ampiamente mostrata dalla moda dei reality show, in cui l’uso delle webcam ricalca la logica del Truman Show. Si tratta di una logica il cui duplice scopo è rivolto sia a soddisfare il desiderio voyeuristico di questo Altro, sia a costruire una scena (una realtà/reality) nella quale i personaggi realizzano il proprio sogno di pienezza d’essere (Freud, 1929), vale a dire il recupero di una mitica condizione narcisistica di godimento pieno. In Reality tale promessa di riscatto veicolata dall’immaginario televisivo, attraverso la distorsione della percezione della realtà piegata dallo sguardo perturbante dell’Altro, assume nel protagonista una tonalità persecutoria che si trasforma in delirio paranoico.

È questa una situazione tragicomica diametralmente opposta all’idea di società panottiche descritte da Bentham e Orwell, nella quali si è costantemente osservati dallo sguardo del potere a cui è impossibile sottrarsi. Nei reality show invece l’angoscia è provocata dall’ipotesi di scomparire dallo sguardo dell’Altro. Il soggetto dunque ha bisogno dello sguardo della telecamera che funge da garante ontologico della sua esistenza (Žižek, 2004).

«Non sei nessuno in America se non appari in tv. È in tv che capiamo chi realmente siamo» sostiene Suzanne Stone (Nicole Kidman), la bella e ambiziosa aspirante giornalista televisiva, influencer ante litteram, protagonista del noir grottesco Da morire (1995) diretto da Gus Van Sant. Mossa da un tenace e infantile desiderio di apparire, e pronta a tutto pur di soddisfare il sogno di diventare famosa, è ancora Suzanne che si domanda «a chi serve fare qualcosa che vale se nessuno ti guarda?», a sottolineare il primato dell’immagine nella costruzione della realtà.

In merito al bisogno di sentirsi al centro della scena alimentato dalla reality tv Vanni Codeluppi (2018) ci ricorda che la televisione non è stata sempre la stessa: essa è inizialmente passata dalla «Paleotelevisione» alla «Neotelevisione», come le ha definite Umberto Eco (1983) per distinguere un primo modello televisivo, quello delle origini, fortemente pedagogico e rispetto al quale lo spettatore svolge un ruolo perlopiù passivo, a un modello successivo, che ha risposto principalmente ai bisogni di evasione del pubblico con programmi di varietà e di fiction. Per arrivare alla fase dei reality (improntati sulla rappresentazione di situazioni di vita «reale» non sceneggiate) che, riducendo la sensazione di distanza prodotta dal mezzo televisivo, hanno portato persone comuni al centro della scena televisiva, includendo al contempo lo spettatore stesso nella rappresentazione attraverso il personaggio o la persona che gli rassomiglia «all’insegna di un’epica del quotidiano» (Eugeni, 2015).

E non solo nel reality show, ma ancor più nella tipologia affine del talent show, che in Italia ha dato vita a programmi come X-Factor, Amici, MasterChef Italia, il pubblico è sedotto dalla promessa che chiunque può accedere alla celebrità, Contemporaneamente, di fronte alla comparsa e al progressivo radicamento di Internet, la televisione si è trasformata ulteriormente in «Transtelevisione» attraverso il massiccio trasferimento della realtà sociale all’interno dello schermo che l’ha portata a confondersi con le sue forme di rappresentazione. In tale contesto il potere dell’immagine non si limita alla colonizzazione progressiva della realtà, ma si spinge addirittura a creare la realtà stessa che consente il diniego del peso insostenibile dell’esistente.

Bibliografia

– Codeluppi V. (2018), Il tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite, Carocci editore, Roma.

– Eco U. (1983), Tv: la trasparenza perduta, in Id., Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano.

– Eugeni R. (2015), La condizione postmediale, Editrice La Scuola, Brescia.

– Freud S. (1929), trad. it. Il disagio della civiltà, in OSF, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.

– Lacan J. (1957-1958b), trad. it. Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Id. Scritti, vol. II, Einaudi, Torino, 1974 e 2002.

– Lolli F. (2012), L’epoca dell’inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno borderline, Mimesis, Milano.

– Žižek S. (2004), trad. it. Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, Campanotto editore, Pasian di Prato.

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