Dall’individuale al gruppale: la fatica della soggettivazione

Il gruppo è composto da cinque pazienti, che precedentemente avevo seguito in psicoterapia individuale, più due terapeuti che si alternano nella conduzione e nell’ osservazione. L’ età dei pazienti oscilla tra i 30 anni di Aldo e i 45 di Mara. Sono tutti laureati e con un lavoro stabile. La caratteristica che accomuna questi pazienti è un problema fusionale, per dirla con Raymond Cahn un fallimento della soggettivazione inteso come: “ciò che non è stato reso decifrabile al paziente, ‘autorizzato’ circa il suo stesso essere, le sue pulsioni, il suo posto nelle generazioni, la sua identità”. Tale questione li portò, in passato, a fare una domanda di psicoterapia individuale per un pervasivo senso di insoddisfazione personale che li aveva accompagnati da sempre e si era manifestato a causa di un fatto contingente, reale, che li aveva come paralizzati, resi incapaci di prendere decisioni. Era evidente una richiesta di aiuto all’Altro, visto come dispensatore di godimento in quanto tranquillizzante nel suo Esserci. Un Altro naturalmente posto nella figura dello psicoterapeuta, considerato capace di soluzioni concrete ed efficaci.
Mara mi contattò perché il padre vedovo si risposava, lasciandola “sola”; Luca perché la moglie lo abbandonava, lasciandolo “solo”; Mattia perché in crisi con la prima e unica fidanzata, rischiava di rimanere “solo”; Francesca perché incapace di prendere decisioni da “sola”; infine Aldo perché la mamma era morta da poco, lasciandolo “solo”.
Una tale posizione dell’orientamento soggettivo di ogni singolo paziente portava, nella psicoterapia individuale, una loro adesione ‘parassitaria’ al terapeuta, con una conseguente scarsa elaborazione simbolica e la tendenza ad imbrigliare il lavoro analitico in una posizione di stallo. Certamente sullo sfondo si celava la difficoltà ad entrare in contatto con contenuti emotivi molto incandescenti. Comunque la mia oramai ventennale esperienza (e la mia formazione freudiana classica) mi ha portato ad avere molta cautela nel effettuare ‘tagli’ simbolici con tali tipo di patologie. L’occasione dell’Associatura alla Sipsa e il desiderio di mettere in piedi un gruppo psicoterapeutico mi spinse a proporre, parecchi anni fa, a cinque miei pazienti più ‘adesivi’, cioè con problemi di “dipendenza affettiva”, un lavoro di questo tipo, dando loro il tempo di elaborare questa proposta e la possibilità di passare, gradualmente, da una esperienza individuale a quella gruppale. Nel lavorare con questo gruppo di pazienti ho trovato notevoli similitudini tra la loro posizione nel gruppo e la posizione che assumono nel gruppo i pazienti che fanno uso di sostanze, al punto che si può definire questo gruppo di psicoterapia come affetto da una “patologia della dipendenza”. Nelle cosiddette patologie della dipendenza, a causa della difficoltà dei pazienti a riconoscere il piano simbolico della relazione, il lavoro individuale svolto dall’analista, ridotto a oggetto-sostanza, può risultare lungo e faticoso e, nei casi più difficili, sfociare nelle cosiddette analisi interminabili se non portare ad una brusca interruzione del rapporto, causa la loro impossibilità a tollerare le separazioni tra una seduta e l’altra. Ecco allora che il gruppo di psicodramma può essere utile, ponendo fin da subito il soggetto in un confronto concreto con la coppia dei genitori-analisti e i bisogni dei fratelli-pazienti.

La mia attenzione ora si concentrerà su Aldo, il paziente che ha vissuto con più difficoltà il passaggio dalla psicoterapia individuale a quella di gruppo a causa della sua storia personale: egli è diventato il portatore della questione gruppale che esamino in questa relazione.
Aldo, 30 aa. è figlio unico. La madre, con cui aveva instaurato un rapporto simbiotico è morta da poco. E’ in seguito a questo lutto che Aldo giunge da me, facendo domanda di psicoterapia individuale. Viene inviato da un collega, che lo aveva seguito cinque anni prima, dopo l’uscita di Aldo dalla degenza ospedaliera, in seguito ad un ricovero per una forma grave di depressione. Al momento del primo colloquio e per tutta la durata della psicoterapia individuale (un paio di anni circa) Aldo non fa uso di psicofarmaci. Egli immediatamente mi vive come un persona serena e realizzata e il contatto con me è sufficiente a non farlo sprofondare negli abissi depressivi. Al contrario questi contenuti, attraverso i meccanismi di scissione e di identificazione proiettiva, vengono posti nel padre (realmente in lutto per la perdita della moglie) nei confronti del quale Aldo tende a diventare vessatorio. Il conoscere una ragazza, attenta e contenitiva, lo porta a decidere di andare a vivere con lei. L’andare a convivere con la ragazza e l’inizio del lavoro in azienda, con contratto a tempo determinato, coincide naturalmente con il passaggio alla psicoterapia di gruppo, prospettata ad Aldo a causa della sua ‘naturale’ incapacità ad entrare in contatto con contenuti emotivi faticosi e la tendenza a trasformare la seduta in piacevoli ‘quattro chiacchiere fra amici’. Consapevole dell’impegno reciproco nel compiere questa nuova avventura, valuto il rischio, presente nel rapporto duale, dell’analisi interminabile con un paziente di tale struttura.

Per tutto il primo anno di psicodramma Aldo porterà la sua insofferenza per il nuovo lavoro in azienda e, dietro un’apparente buona disposizione, la sua intolleranza nel condividere spazi con gli altri colleghi. Appare evidente come, nel transfert, Aldo porti la sua fatica nel dividere l’Analista – sostanza con gli altri.
In occasione della prima interruzione natalizia, Aldo si ammala.
Alla ripresa porta la sua angoscia, definendosi “depresso”: come proteggendosi da un grande sentimento di perdita, attraverso un senso d’identità posticcia che lo ha accompagnata in vari fasi della sua vita. Lo accompagna un’idea fissa: quella di essere andato a lamentarsi dal direttore generale per la scarsa disponibilità di una collega di lavoro. In realtà Aldo ha anche portato una sua difficoltà a ricoprire il suo ruolo in azienda, trovando faticoso rimanere seduto per varie ore al giorno con la ‘insopportabile’ collega al suo fianco. Il risultato di questo colloquio è stato uno spostamento dalla sede centrale dell’azienda e l’incarico a ricoprire vari posti vacanti, per ferie o malattia, nelle sedi periferiche. Aldo vive questo spostamento come una punizione, dice per mesi che non avrebbe dovuto lamentarsi col direttore generale, che doveva starsene zitto: se fosse ancora viva sua madre tutto ciò non sarebbe accaduto, lei gli avrebbe impedito di lamentarsi e lo avrebbe fatto rimanere al suo posto. La posizione di stallo di Aldo permane per quasi un anno: si reca dallo psichiatra e incomincia a seguire, senza risultato, una cura farmacologica blanda costituita da ansiolitici e antidepressivi. Dopo un mese dalla ripresa della seconda interruzione estiva Aldo porta un sogno, conduce la seduta la collega.

Aldo: Ho sognato che mi cadevano i due incisivi, c’era del nero in mezzo ai denti. Mia mamma mi diceva: adesso li rimettiamo e mi portava da due dentisti, il primo non le piaceva e allora mi portava dal secondo che diceva che la questione si poteva risolvere velocemente.. in questi giorni sono stato a casa perché ero in ferie, ho letto un libro: ‘La solitudine dei numeri primi’..

Viene fatto giocare Aldo con la mamma che va dai due dentisti. Aldo sceglie Mara nel ruolo della madre, Mattia nel ruolo del dentista più pignolo e Luca in quello del dentista più possibilista. Dopo il gioco Aldo dichiara: Pensavo a mio padre, a quando mi faceva fare l’altalena da bambino.. ieri mi è venuto a trovare.. ma lui non mi può aiutare, lo vedo come inerme..

Francesca: Il fatto che fossero due denti che cadevano mi ha fatto pensare ai denti da latte.. e poi alla mamma e al papà.. ai due genitori.. al fatto che, o non ci sono più come tua madre, o che sono carenti come tuo padre.. per me fare tornare tutto come prima è come volere tornare bambini..

Luca: Io pensavo ad una richiesta di aiuto..

Mattia: Come qualcosa che è caduto e al suo posto c’è qualcosa di nero.. qualcosa che spaventa..

Mara: Pensavo a me, quando sto male fisicamente.. come quando, anni fa, ho chiamato l’ambulanza.. spesso anche se ho delle persone intorno mi sento sola.. quando è venuta l’ambulanza l’infermiere mi ha detto: ‘ora si calmi, non è in pericolo di vita’.. mi ha tranquillizzato..

T: Forse l’ha anche fatta arrabbiare..

Mara: Lui no, l’altro infermiere che c’era sì.. continuava a fare domande..

T: Anche qua ci sono due infermieri.. come due dentisti..
Dopo questa seduta, nelle settimane successive i componenti del gruppo, per la prima volta, affrontano la loro adolescenza e portano tutti esperienze di adolescenza castrata, dove non era possibile andare in giro in motorino o uscire coi fidanzatini senza che i genitori diventassero persecutori.
Mara, verso la fine della seduta, porta un episodio di molestia sessuale, subita da un parente all’età di 16 anni e si meraviglia di come la madre, sempre ostile a che lei uscisse con dei ragazzini, l’avesse lasciata andare sola in macchina con un parente che a lei non piaceva per niente. Circolano emozioni molto intense.

Nella seduta seguente giunge per primo Aldo e bypassa l’episodio portato da Mara alla fine della seduta precedente, riproponendo l’idea fissa del colloquio con il direttore generale. Giungono alla spicciolata gli altri partecipanti e Aldo continua imperterrito a parlare, come se fosse in seduta individuale. Dice che la sua fidanzata si sta stancando del suo atteggiamento (“Paola mi dice che la depressione viene dal congelamento delle emozioni che io non voglio provare.. ma io sono depresso.. se ci fosse stata mia mamma mi avrebbe portato da tutte le parti per guarirmi..). Mattia cerca di stimolare Aldo che appare irritato e mi guarda (sono nel ruolo di osservatore) come se ci fosse ‘qualcuno che ci divide’.
Ad un certo punto Mattia dice che nel gruppo di fotografia che frequenta c’è una ragazza che gli piace e che vorrebbe invitare a cena, stasera hanno l’ultima lezione. Aldo si alza e va in bagno e Mattia, visibilmente imbarazzato, chiede se ha detto qualcosa di sbagliato.
Giochiamo l’invito a cena della ragazza durante la lezione, nel ruolo del professore Mattia sceglie Luca; la ragazza è un incrocio tra Mara e Francesca e alla fine Mattia sceglie Mara.
Di questa ragazza Mattia dice che è molto spontanea, lei non esita a manifestare il suo malcontento durante la lezione.
Luca nel ruolo del professore, mentre Mattia e Mara parlano dice: “mi raccomando usate il diaframma, inquadrate la persona senza tagliarla”
La seduta si conclude con la terapeuta che sottolinea come non tutto quello che vorremmo mostrare viene raccolto dall’altro.
Io, nel ruolo di osservatore, noto come nel rapporto con l’altro si tenda ad usare il diaframma per non sentirsi troppo ‘molestati’ da emozioni intense, angoscianti.

Mara sarà assente nella seduta successiva.
La cosa viene fatta notare da me, nel ruolo di conduttore, dopo un lungo silenzio, parla Francesca: con Andrea sto bene ma sono bloccata sessualmente.. nella mia testa immagino bei momenti, poi nella realtà io non faccio niente e lui non prende l’iniziativa.. rimane tutto così.. ho passato il week end da lui, siamo stati sempre insieme.. ma sesso niente.. poi domenica notte ho sognato che facevamo l’amore.. sembrava reale, mi sono svegliata, ho realizzato che stavo sognando.. lui era là, nel letto con me.. ma non l’ho svegliato.. non ho fatto niente.

Io: Nessuno prende l’iniziativa

Francesca: Io mai.. mi sono adattata.. senza sesso sembra che le cose vadano meglio..

Aldo: E’ un dejavu.. è la stessa cosa con la mia ragazza.. ci siamo bloccati..

Io: sembra che anche qua il gruppo sia bloccato, non fa all’amore.. si sta bene assieme ma non si crea quell’intimità..

La seduta successiva Aldo comunica che la sua fidanzata, stanca del suo pensare solo a prendere le medicine e a dormire, inizia a cercarsi un’altra casa (“abbiamo costruito questa casa assieme, ero tranquillo, pensavo che non andasse più via.. perché mi fa questo.. io sono depresso”), dice anche che il medico di famiglia gli ha consigliato di riprendere la terapia individuale con me, invece di continuare a fare lo psicodramma. In questa seduta, condotta dalla collega, i componenti del gruppo sono tutti presenti. Mara dice che non si sentiva bene, ma non ha avuto ‘voglia’ di telefonare, le scocciava. Luca (assente anche lui nella seduta precedente) non ha avuto ‘voglia’ di ‘venire’, ha preferito bersi un aperitivo con un amico. Poi si mette a parlare del suo rapporto con la fidanzata, dice che con lei si blocca, perché se si apre poi sta male. Racconta che lei gli ha comunicato che non può avere figli e questa cosa non gli va giù perché lui ne vorrebbe altri (ha già una figlia dal primo matrimonio) e allora pensa di lasciarla. Anche perchè lei gli dice che lo ama e poi lui si blocca. Mara dice che questa cosa ‘la tocca’ da vicino, perché lei oramai è grande sia per avere figli che per adottare. Giochiamo il dialogo tra Luca e la fidanzata sulla questione della sterilità: Luca sceglie Mara. Mara modifica il gioco parlando di adozione, come dire che il gruppo può modificare la propria sterilità. Io, come osservatore, interpreta i termini ‘voglia’ e ‘venire’ circolati nel gruppo e mi chiedo: ‘venire’ come evacuare o avere un orgasmo?

Ettore Perrella (1998), individua un’area – quella delle dipendenze – come autonoma rispetto alle tre originarie descritte da Freud, psicosi, perversione e nevrosi. Egli sposta la forma maniaco-depressiva – appartenente alla sfera delle psicosi – nell’ambito delle dipendenze, e la colloca come paradigma di tutte le altre forme di dipendenza. Riprendendo lo scritto di Freud “Lutto e melanconia” (1915), in cui l’autore fa rientrare le dipendenze all’interno delle cosiddette “nevrosi narcisistiche”, Perrella afferma che alla base di tutte le dipendenze c’è un “lutto impossibile” e l’oggetto incorporato diventa “sostanza”. L’ oggetto da divorare (quale cibo, alcol, droga, e, in questo caso, anche psicofarmaci) diviene una supplenza dell’altro: “nelle dipendenze, quindi, la relazione con l’oggetto da incorporare tende sempre a sostituire la relazione d’amore”. L’inclinazione psicotica della dipendenza da sostanze è evidente: l’essere del soggetto prescinde dall’essere dell’Altro, l’essere del soggetto è piuttosto in antitesi, in una posizione di rifiuto dell’Altro. Freud e Lacan si trovano d’accordo nel ritenere la tossicomania non un sintomo, bensì una soluzione felice: usano il termine ‘droga’ in forma allargata, intendendo tutte quelle forme di dipendenza da sostanze. In Lacan il primo riferimento in merito si trova ne “I complessi familiari” (1938): dice che di fronte allo svezzamento, esperienza traumatica di separazione, di divisione, il soggetto risponde attraverso una tossicomania per bocca, spinto dalla ricerca dell’armonia perduta. Un secondo riferimento è nel “Discorso sulla causalità psichica” (1946): l’intossicazione organica è vista come uno dei meccanismi illusori di risoluzione della “discordanza primordiale tra l’io e l’essere”, da qui il miraggio narcisistico di immaginarsi uno, non soggetto alla divisione. Le dipendenze, quindi, promuovono il divorzio tra il soggetto e l’Altro ed il “matrimonio con l’oggetto”: al posto di questo Altro subentra l’oggetto-sostanza, che consente al soggetto l’illusione di ‘farsi’ facendo a meno dell’Altro.

Aldo ultimamente ha portato in seduta un sogno: si trova nel letto con sua madre e passa la sua prima ragazza, amata all’età di 20 anni. Si trattava di una ragazza fidanzata con cui egli visse una intensa e breve relazione, poi da lui interrotta perché lei non riusciva a lasciare il fidanzato. Questo episodio fu la causa del ricovero ospedaliero di Aldo, per depressione. Nel sogno egli fa notare la presenza della ragazza alla madre che, al contrario, non vede nulla e cerca di convincerlo che questa ragazza, questo lutto, non esiste, non è Reale.

L’Io Sono Depresso di Aldo sembra descrivere, quindi, il legame in cui egli si trova con l’Altro. Lo psicofarmaco, se non addirittura il ricovero, permette ad Aldo di agganciare una dispersione significante, nel momento in cui un significante non riesce a metaforizzarsi e genera inquietudine. Lo psicofarmaco sembra funzionare per lui come significante che annoda di fronte ad un buco della significazione. Sul piano sociale e personale la sostanza gli fornisce un nome, un’identità: quel “Io Sono Depresso” che Aldo, da un anno, ripete in gruppo.

N.B. Per motivi di privacy i dati personali e biografici dei pazienti sono stati modificati.

RIASSUNTO
In questo scritto l’A. affronta il difficile passaggio al gruppo di psicodramma, di alcuni pazienti dalla personalità definibile come ‘dipendente’, che in passato egli aveva seguito in psicoterapia individuale.

SUMMARY
In this article the A. write about the difficult passage to the group of psychodrama of some patients.
In the past they were his patients in individual psychotherapy.

BIBLIOGRAFIA

Cahn R. (2004) La fine del divano?, Borla, Roma
Freud S. (1915) Lutto e melanconia, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, vol. VIII
Lacan J. (1938), I complessi familiari, Scritti, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2005
Lacan J. (1946), Discorso sulla causalità psichica, Scritti, Einaudi, Torino 1974, Vol. 1
Perrella E. (1998) Per una clinica delle dipendenze, Franco Angeli, Milano

di Maurizio Cottone, in GRUPPI – Rivista ufficiale della COIRAG, nr.2, 2010, Ed. Franco Angeli

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