Una paziente mi telefona. In seguito alla lettura di un mio articolo in cui si è molto riconosciuta, chiede di iniziare un percorso analitico. Alla prima seduta appare dubbiosa riguardo la scelta fatta, vorrebbe pensarci, prendere tempo. Io le prospetto, come da abitudine, almeno quattro incontri preliminari per mettere “a fuoco” la questione, soprattutto per capire se noi potremmo lavorare bene assieme. Una buona intesa tra paziente e terapeuta è fondamentale per un proficuo lavoro analitico. In fondo è ciò che accade nelle relazioni di tutti i giorni, e questa è una relazione “speciale”.
Nel secondo incontro porta un frammento di sogno: un ragazzo di spalle coi capelli lunghi. La paziente attribuisce al ragazzo del sogno la sua età, egli è pure moro, come lo è lei.
Il sogno si conclude così, ed io penso che sia buona cosa che la paziente mi porti un frammento di sogno già alla seconda seduta.
La signora, quarantenne, figlia unica, nubile e dalla folta chioma nera, per associazione di idee mi dice che la madre, prima di avere lei, aveva subito un “aborto spontaneo”. La mamma di Bruna, pur non conoscendo il sesso del feto abortito, pensando fosse maschio aveva deciso già, insieme al padre, di chiamarlo Bruno, appunto. Questo è stato anche il nome al femminile della paziente, che a detta di tutti doveva essere maschio.
Bruna non era riuscita mai a portare avanti, con rammarico, rapporti sentimentali duraturi e il mio articolo la invitava ad interrogarsi riguardo al motivo per cui tali rapporti venivano ad interrompersi.
La paziente con tale riflessione mostrava anche una certa intelligenza e una buona introspezione, domandandosi quanto fosse anche sua responsabilità l’incontrare un certo tipo di persone, per poi ritrovarsi sola.
Tutti noi quando leggiamo uno scritto che riguarda qualcosa che stiamo vivendo ci identifichiamo solitamente con la “vittima”. Tendiamo a trascurare, in maniera difensiva, perché troppo doloroso, il fatto che forse non ci sono dei ruoli così ben definiti nella coppia “sadomasochista” dove, a turno, e con modalità diverse, uno è carnefice dell’altro. Nell’ instaurare un rapporto sadomasochistico, che è destinato a non avere un futuro, solitamente la responsabilità “inconscia” è di entrambi i componenti della coppia. Come se ci si scegliesse in quanto ciascuno lo specchio dell’altro, come se specularmente si interpretasse il ruolo che l’altro inconsciamente vuole.
Queste caratteristiche che connotano la coppia patologica, conducono direttamente alle problematiche narcisistiche di uno, se non di entrambi, i partner costituenti tali coppie.
Anche se il termine ha assunto oramai unanimemente connotazioni negative, iniziamo col dire che c’è un narcisismo “sano” e c’è un narcisismo “patologico”.
Tutte le persone che si vogliono bene, solitamente realizzate nella vita pubblica e/o privata, sono fondamentalmente dei narcisisti. Ma questo non vuol dire che siano dei “narcisisti patologici”, cioè totalmente incapaci di vivere una relazione stabile con il partner dell’altro sesso.
Il narcisista cosiddetto patologico si differenzia da altre personalità problematiche per una incapacità congenita ad avere relazioni quotidiane stabili: in particolare fallisce e si “rivela” nelle relazioni sentimentali. Solitamente a livello sociale dà il meglio di sé: è un bravo “influencer” (termine oggigiorno tanto caro) e spicca in professioni dove è fondamentale essere al centro dell’attenzione, avere consenso pubblico, come può capitare al politico, al libero professionista, all’intellettuale, all’artista.
Tali soggetti esercitano un formidabile fascino seduttivo sulla “preda” momentanea, prospettandole uno scenario meraviglioso, in adesione con le fantasie segrete della “vittima designata”. Tale vittima solitamente è una persona bisognosa di credere in un futuro diverso da quello che sta vivendo – e ha vissuto in passato – cerca un riscatto, solitamente cerca una famiglia idealizzata che non ha mai avuto.
Nel momento in cui il carnefice è sicuro di avere il controllo sulla vittima, la relazione improvvisamente cambia e il paradiso inizialmente prospettato si trasforma in un inferno vero, dove la crudeltà e la violenza psicologica dominano la scena.
A differenza di quello che solitamente si pensa del “narcisista patologico”, cioè che sia fondamentalmente uno psicopatico, il sottoscritto ritiene che questa persona invece sia estremamente sensibile ed intelligente, tanto da riuscire a capire a livello profondo i bisogni della vittima e sedurla attraverso il linguaggio, le azioni, le dimostrazioni di interesse mirato e circostanziato.
Ciò avviene perché inizialmente il narcisista patologico si specchia nel partner e si comporta come egli vorrebbe ci si comportasse, o ci si fosse comportati, con il suo Sé bambino. Egli trasmette un’immagine ideale legata a tutto ciò che avrebbe tanto desiderato in passato, ma che non ha mai ottenuto a causa di una madre fondamentalmente depressa o anafettiva.
Il “narcisista patologico” appare quindi una persona profondamente ferita, sofferente che, a differenza della vittima designata, ha strutturato delle difese perverse che gli permettono di controllare la relazione con l’altro, manipolarlo, al fine di fare rivivere a questi il dolore psicologico da lui subito, nell’ inutile tentativo di liberarsi di tale sofferenza.
Tale soggetto “malato” è riuscito a trovare una soluzione momentanea, e quindi illusoria, di aggirare la sua incapacità di dipendere affettivamente dal oggetto d’amore, e questo perché tale oggetto è danneggiato e mortifero.
L’altro, il partner conquistato, l’oggetto d’amore inizialmente tanto idolatrato, si rivela ben presto un oggetto morto, un feticcio.
Si comprende bene come la deriva perversa in questi soggetti sia dietro l’angolo, e sia l’unica possibilità che loro hanno per sentirsi vivi: questo è pure il motivo che li spinge a cambiare partner frequentemente, se non ad avere unicamente rapporti occasionali.
Negli ultimi decenni la psicoanalisi ha monopolizzato la discussione scientifica nell’area dei comportamenti perversi, trasformandone lo statuto da vizio, o devianza, in una visione che ne valorizza la componente fantasmatica e il significato di difesa.
Ciò che caratterizza le relazioni perverse sono i mezzi e gli artifizi che consentono al narcisista di mettere in atto le sue fantasie sovrapponendole alla realtà: la strada più facilmente percorribile è quella della feticizzazione dell’altro.
Questo “altro” è di fatto reso inumano per poter essere controllato, immobilizzato; messo in condizione di non poter mai sorprendere, e di non essere mai perduto.
Nell’ ordine feticistico l’altro – poichè oggetto primario – è un supporto indispensabile per la sopravvivenza del soggetto e, quindi, costantemente cercato al fine di sorvegliarlo, per controllare, illusoriamente, il proprio dolore.
L’unica modalità difensiva a disposizione della vittima consiste nell’ accorgersi velocemente che la sofferenza diventa maggiore rispetto al piacere di stare insieme al partner narcisista. Trovare quindi la forza di abbandonarlo, lasciarlo, bloccando ogni tipo di conversazione, sia verbale che scritta. Fare perdere ogni traccia di sé. Ma questo ovviamente non è assolutamente facile per la “vittima designata” che, essendo tale, si incastra perfettamente alla figura del carnefice.
La vittima del narcisista, è essa stessa una narcisista mancata, che trova in questa figura illusoriamente grandiosa tutto ciò che crede di non avere mai avuto, e che ora potrebbe miracolosamente avere attraverso il partner.
Inutile specificare che il carnefice è molto seduttivo ed in grado di convincere la vittima a riprendere una relazione già da questa chiusa, perché vissuta come masochistica e fallimentare. Se abbandonato, egli è in grado di convincere con tutte le sue forze tale vittima, avendo come unico scopo quello di riconquistare l’oggetto feticcio per stare meglio, avendo sperimentato il benessere nel vomitare fuori, su di lei, la propria disperazione.
Se lasciato il narcisista farà di tutto per dimostrare il suo cambiamento al partner, ma nel momento in cui questa persona, questo oggetto feticcio, è riconquistato, il narcisista maligno ricomincerà la sua opera distruttiva, non potendo fare altrimenti. Per questi motivi appare fondamentale, con questo ti po di soggetti, il “No Contact”.
È molto difficile curare un narcisista e anche molto difficile che tale persona venga a chiedere un aiuto terapeutico. Perché solitamente sono le vittime, quelle da lui vessate, umiliate, danneggiate, a telefonare per un appuntamento.
Le poche volte che uno psicoterapeuta ha a che fare con tali personaggi, questo sembra avvenire perché i loro comportamenti sono apparsi disfunzionali anche a livello lavorativo e sociale, costringendoli così ad interrogarsi sulle cause di tali fallimenti. Nonostante gli encomiabili tentativi, il percorso terapeutico con tali pazienti appare difficile. Essi tendono ad abbandonare dopo pochi mesi la psicoterapia pensando di non averne più bisogno, se non addirittura ritenendo che questa non serva a niente, solo fare sprecare inutilmente tempo e danaro.
In realtà la loro vera difficoltà è quella di vivere una relazione terapeutica che fondamentalmente ricrea una dipendenza affettiva mal tollerata. Quando il terapeuta è un professionista capace l’abilità manipolativa di tali pazienti fallisce, mettendoli così di fronte al loro fallimento interiore, al loro disperato dolore.
È solo un oggetto interno positivo, trasmesso da una madre “sufficientemente buona” (Donald Winnicott, 1974), che permette una relazione affettiva sana e stabile con l’altro.
Questo non è stato il caso di Sauro, che come altri “narcisisti patologici”, ha avuto a che fare con una madre depressa, e comunque assente nel trasmettere quel calore, quella fiducia fondamentale per fidarsi dell’altro.
Sauro mi ha cercato, e trovato, come sua “ultima spiaggia” terapeutica. Dalla collega precedente, una valida giovane professionista, non poteva più andare poiché era riuscito nel suo intento di sedurla, coinvolgerla in una breve relazione e quindi bloccare “perversamente” la terapia.
Sauro, un professionista affermato di oltre cinquanta anni, si trovava ad un bivio, consapevole della sua incapacità cronica nel portare avanti una relazione sentimentale.
Affetto da una vera e propria “sex addiction”, egli viene travolto dall’eccitazione di riuscire a sedurre e a trascinare la nuova momentanea preda nel suo universo perverso. Quindi la “vittima designata” viene convinta, attraverso le enormi capacità seduttive di Sauro, ad interpretare per una notte la “padrona” delle fantasie del paziente, per poi ritrovarsi, il giorno dopo, messa alla porta.
Tra le varie configurazioni patologiche, attribuibili a una ferita narcisistica originaria, la più nota è quella descritta da Andre’ Green come Il complesso della madre morta (1983). Non si tratta di un lutto reale subito dal bambino nei primi anni di vita (Green lo definisce lutto bianco), ma di una depressione materna, insorta a causa di eventi di vita dolorosi e improvvisi, a seguito della quale la madre ha distolto bruscamente il proprio investimento affettivo nei confronti del figlio. Per il bambino questo distacco emotivo, a cui non è in grado di attribuire un senso, rappresenta una vera e propria catastrofe e viene a creare, per usare l’immagine proposta dallo psicoanalista francese, un “buco nero” nella trama psichica soggettiva. Da adulto potrà avere una vita relazionale e lavorativa apparentemente soddisfacenti, ma dentro di sé continuerà a tenere inconsciamente in vita questa immagine della madre morta identificandosi con lei.
Se questa descritta appare la condizione “mortifera” del narcisista patologico pensate al dramma del paziente in questione: egli ha incrementato le sue “difese perverse” successivamente alla morte drammatica della madre, per auto soppressione, avvenuta quando egli era ancora giovane.
Un buco nero dal quale la madre si è fatta inghiottire, buco che corrode giorno dopo giorno pure lo stato psichico di Sauro.
Questo vignetta clinica è un esempio eclatante, allo scopo di mostrare come tali pazienti, cosiddetti “narcisisti maligni”, sono persone profondamente danneggiate internamente, incapaci di amare, poiché non c’è mai stata la possibilità per loro di costruire un oggetto interno buono, da amare, con cui relazionarsi.
Questi uomini (e queste donne) danneggiati profondamente, attraverso meccanismi perversi di scissione dell’Io, creano una fascinazione in cui molte “controparti” vengono sedotte, poiché anche loro danneggiate internamente, ma per cultura, educazione, vittimizzazione, destinate a credere nella possibilità riparativa di tale loro oggetto interno, attraverso il tentativo “di cura” del partner malato.
Sauro, il mio paziente, nonostante la sua encomiabile messa in discussione, non riesce a costruire un oggetto sano perché è troppo doloroso – se non rischioso – affrontare la depressione che si frappone fra lui e l’oggetto perduto, distrutto, auto soppresso, morto.
Il fascino seduttivo perverso invece lo eccita, e la prossima preda da divorare, e poi espellere è lì, a portata di mano.
Ecco stralci dolorosi della psicoterapia di Elena, uscita da una relazione con questo tipo di personalità narcisista, attraverso un lungo e doloroso percorso giudiziario.
“Quando è tornato cercarmi, dopo che lo avevo lasciato una prima volta, perché costantemente umiliata, mi diceva che ero la cosa più bella della sua vita e che senza di me la sua vita non contava nulla, voleva sposarmi ed avere un bambino, quel bimbo che anni prima non aveva voluto, costringendomi ad abortire. Mi disse “noi abbiamo un debito nei confronti della vita” … ho pensato avesse capito i suoi errori, ero innamoratissima di lui, lo perdonai. Ci siamo sposati e sono rimasta incinta subito… sono cambiate le cose rapidamente… “chi me l’ha fatto fare a metterti incinta, una troia così… per me puoi abortire ancora’”
E poi ancora, nei colloqui successivi, Elena così narra la relazione vissuta:
Mi sono sempre sentita una nullità, mi considerava solo la sera per sfogarsi sessualmente, e quando gli dicevo “mi usi solo per svuotarti”, rispondeva “sì una magra consolazione con una come te, dopo una giornata di lavoro”
Mi sentivo umiliata, continuamente svalutata, squalificata, volevo reagire, andarmene, ma rimanevo sperando cambiasse, se non per me, per suo figlio.
Mi diceva sempre “sei da poco”, ero devastata interiormente, le mie energie lentamente diminuivano.. e quando si arrabbiava mi dava gli schiaffi in testa, tirava i capelli, mi urlava “mi fai schifo, sei brutta”. Ero mortificata, disperata, non avevo più la forza di reagire, solo il desiderio di farla finita.
Questo, in estrema sintesi, il clima emotivo in cui si è trovata a vivere la paziente, fino a quando non ha trovato la forza di andarsene dalla città ove si era trasferita per stare vicina al compagno.
Attualmente Elena continua la psicoterapia col sottoscritto, convinta di avere necessità di “rinforzarsi” psicologicamente, al fine di evitare nuovamente di cadere in relazioni “patologiche”.
In base alla mia esperienza clinica, infatti, ritengo che finché le vittime non diventano consapevoli, a livello profondo, di cosa è mancato loro in un lontano passato, finché non si assumono la responsabilità delle loro dinamiche inconsce che le conducono a rapporti “malati”, tali rapporti tenderanno a ripetersi.
E il prossimo “narcisista maligno” sarà là, dietro l’angolo, ad aspettare la nuova preda per cena. Ps. per motivi di privacy i luoghi e i personaggi riportati sono stati modificati Maurizio Cottone