Nella mia vita lavorativa precedente, cioè quando facevo solo la farmacista, ho frequentato, da volontaria e per circa un anno, una struttura per minori perchè nell’infermeria c’era bisogno di mettere un po’ di ordine e di organizzare gli armadi farmaceutici. I ragazzi ospiti della struttura avevano più di dodici anni e il loro soggiorno lì presupponeva come minimo una situazione familiare fortemente problematica e disagiata, quando non avevano avuto già (diciamo così) frizioni con la legalità. Ad un certo punto mi sono accorta che cercavano scuse per venire in infermeria, inventando piccoli malesseri che si curavano facilmente con due risate, qualche cioccolatino e un po’ di sana ironia. Non ho mai chiesto a nessuno di loro perchè fosse lì e, quando qualcuno mi ha voluto spontaneamente raccontare qualcosa, ho ascoltato, cercando di non commentare, a meno che non mi fosse esplicitamente richiesto o ci fosse qualche segnale che mi inducesse a farlo. I miei discorsi erano sempre orientati al futuro, e li invitavo a concentrarsi su quello che piaceva loro, o su qualcosa nella quale fossero particolarmente bravi, invitandoli a fare progetti facendo però anche tesoro dell’esperienza di comunità che stavano vivendo. Quando, dopo quell’anno, mi sono trasferita per lavoro in una città del nord Italia, ho chiesto al responsabile della struttura di poter organizzare una festicciola per salutare tutti i ragazzi. Torta al cioccolato, gelato come se piovesse, molti abbracci e qualche lacrima pudicamente occultata… molta emozione, aumentata esponenzialmente quando uno dei ragazzi più grandi ha preso la parola e ha detto: “Dottore’, ci mancherai perchè tu ci tratti normale…” Ho scoperto successivamente, quando ho intrapreso nuovi percorsi di studio, che basandomi sull’istinto avevo dunque messo in atto un comportamento corretto, sia dal punto di vista educativo sia dal punto di vista criminologico. La strategia (inconsapevole lo ammetto) era dunque stata l’umanità. Ma oggi so anche per certo che da sola non basta. Dal punto di vista educativo ho imparato che un adulto potrà essere una buona guida non solo se a sua volta egli ne avrà avuta una, ma soprattutto se, successivamente, il suo percorso di vita lo avrà messo in condizione di possedere qualche certezza, pochi ma saldi punti di riferimento, e la capacità di mettersi continuamente in gioco e in discussione. Ho capito bene che il punto di riferimento non può essere solo la propria famiglia di origine, o il luogo dove si è cresciuti o gli amici di infanzia. Il nostro centro dobbiamo essere noi, con i nostri valori, le nostre certezze, i nostri limiti. Solo se accettiamo noi stessi, semplicemente, possiamo essere di aiuto per gli altri, soprattutto se sono giovani e bisognosi di guide ed esempi. Bisogna avere, forte, la volontà di comprendere, di ascoltare quello che dicono e, soprattutto, possedere la capacità di osservarli. Con discrezione e partecipazione, interessandoci in modo autentico a ciò che fanno, ciò che amano, ciò che odiano. Bisogna poi avere il coraggio di essere liberi. Liberi, ad esempio, dai pregiudizi. I pregiudizi sono un perimetro che ci fa sentire tranquilli, tutelati, protetti. Un recinto, all’interno del quale far mostra di noi, pavoneggiarci anche, giudicare spesso, ma dal quale per paura usciamo poco. E bisogna infine ricordarsi di usare con molta parsimonia le etichette. Queste sono, a mio avviso, armi a doppio taglio. Chi le appone non si preoccupa di verificare, non va oltre; chi le subisce, per uno strano meccanismo, si sente quasi in dovere di confermarle. Si innesca, quindi, un circolo vizioso difficile da interrompere che a lungo andare genera catastrofi. Anche l’approccio di tipo criminologico, all’interno o no di un percorso trattamentale istituzionalizzato, non può prescindere dall’umanità, da un atteggiamento di comprensione libero anche da ogni tentazione di paternalismo, giudicante o no. Per quanto possa sembrare azzardato ( e ne sono perfettamente consapevole) credo fortemente che qualunque contesto educativo istituzionalizzato, come ad esempio la scuola media inferiore e superiore, debba possedere uno sportello d’ascolto nel quale , oltre alla figura dello psicologo, ci sia la possibilità, quando necessario, di richiedere l’intervento del criminologo. Questo certamente non perchè i ragazzi siano delinquenti, ma perchè in casi di violenza, bullismo, cyberbullismo…si deve partire dall’analisi dei comportamenti violenti. Per gli operatori scolastici, per i genitori, per le vittime, per i “carnefici”, diventa di fondamentale importanza dare alle cose e alle situazioni i giusti nomi, inserendo gli eventi nei contesti corretti, evitando condanne assolute, vendette personali o, al contrario, offensive sottovalutazioni o eccessive giustificazioni. Queste ultime nel tempo si riveleranno dei veri e propri boomerang per chi ha commesso il fatto, perchè non solo non avrà imparato nulla ma, semmai al contrario potrebbe addirittura vivere un senso di potenza nell’averla fatta franca. Per la vittima poi, questo è devastante e il criminologo non può commettere l’errore che in tanti rimproverano al sistema e cioè di attribuire maggiore importanza al reo piuttosto che alla vittima. Pari dignità. L’esperto in criminologia ha il dovere ed il compito sì di valutare il carnefice, partendo dal suo comportamento “offensivo” per poi arrivare ad un percorso di recupero e di riparazione del danno arrecato, ma deve anche sostenere la vittima, interagendo con gli operatori psicologici che la prenderanno in carico. Inoltre, ancora prima, si possono mettere in atto delle strategie per cercare di prevenire gli episodi di violenza, insegnando ad esempio a riconoscerne i segnali. Non sottovalutare o ingigantire, ma riconoscere. Risulta quindi non solo fondamentale, ma anche fortemente auspicabile analizzare i comportamenti violenti, di qualunque natura essi siano e stabilire dei percorsi che siano educativi, rieducativi e progettuali. Tutto però partendo dal riconoscimento della violenza. Per le vittime e per i rei. In mancanza di questo, nulla varrà davvero.